Il Colore Bianco

Ideazione e regia di Giorgio Barberio Corsetti
16 - 28 febbraio - Chapiteau parco della Tesoriera ore 21


Uno spettacolo di teatro, danza e arti circensi ispirato ai racconti mitici del nord con attori, danzatori e acrobati

Coreografia di : Fatou Traoré
Drammaturgia: Giorgio Barberio Corsetti, Edoardo Albinati, Raquel Silva
Attori : Emanuela Guaiana, Federica Santoro, Fortunato Cerlino Peppino Mazzotta, Filippo Timi
Danzatori : Claire Laureau, Luca Alberti, François Brice, Peter Jasko Andrej Petrovic, Mitsiko Shimura
Acrobati : Virginie Fremaux, Sophie Kantorowicz, Diane Vaicle, Julien Lambert, Xavier Martin, Axel Minaret, Fury Benaji Mohamed, Kiluangi Runge
Scene: Giorgio Barberio Corsetti e Cristian Taraborrelli
Costumi: Cristian Taraborrelli
Installazioni: video Fabio Massimo Iaquone
Musiche: Gianfranco Tedeschi e Daniela Cattivelli
Live electronics: Daniela Cattivelli
Assistente alla regia: Raquel Silva
Musiche eseguite dal vivo: Gianfranco Tedeschi contrabbasso
Daniela Cattivelli live electronics e sassofono

Prodotto da Città di Torino-Torinodanza, in collaborazione con Regione Piemonte, realizzato da Teatro Regio Torino per le Olimpiadi della Cultura.
Una nuova produzione Teatro Regio Torino


Approfondimenti

Sinossi - english version
L'argomento di Edoardo Albinati

Un viandante, dopo un lungo cammino, si presenta ad Asgard, la casa abitata dalle misteriose divinità del nord, e vuole sapere di loro. Gli Asi inscenano per lui una rappresentazione della storia del mondo, a partire dalla sua creazione, quando le montagne, il cielo, le nuvole furono fatte col corpo smembrato di un gigante. L’immenso albero Yggdrasil attraversa dall’alto in basso l’universo e ai suoi rami, per nove lunghe notti, è stato appeso il più eminente tra gli Asi, il loro capo, Odhinn, che grazie a questa iniziazione ha appreso le arti magiche ed i segreti di ogni cosa.
Un ulteriore accesso alla sapienza e alla poesia è garantito da una pozione sacra, l’idromele, fatta con lo sputo divino mescolato al sangue: nani e giganti se lo contendono in una storia di violenza e inganni in cui la preziosa bevanda cambia molte volte proprietario fino a che Odhinn la recupera con uno stratagemma amoroso, seducendo la bella Gunnlod.
Oltre alle continue incursioni dei giganti, molti sono i pericoli da cui gli Asi debbono difendersi. Il più inquietante e minaccioso è il Lupo, figlio di Loki, che solo grazie a una catena portentosa e al sacrificio della mano di Tyr, gli Asi riescono a catturare.
In questo mondo governato dall’astuzia, dalla forza ma soprattutto dalla paura, a puntellare la barriera contro gli assalti nemici è Thorr. Ma il suo famoso e infallibile martello un giorno gli viene rubato, e per recuperarlo dovrà recarsi a un pericoloso quanto farsesco matrimonio nella terra dei giganti dove la sposa è proprio lui, Thorr, travestito da donna…
In altre occasioni avventurose la fama di Thorr verrà messa a rischio. Sempre viaggiando insieme a Loki in terra di giganti, incontrano il colossale Skrimir (non s’erano accorti di aver trascorso la notte in un suo guanto…) e poi, giunti in un misterioso castello, gli Asi vengono sfidati da creature portentose, sconfitti e umiliati. Solo una spiegazione filosofica potrà svelare il senso di questi incredibili avvenimenti: e cioè che esistono forze superiori persino a quelle degli dei.
Una è il tempo. Gli Asi si mantengono giovani cibandosi delle mele d’oro di Idunn ma quando questa viene rapita, il mondo di colpo invecchia. Ristabilito almeno provvisoriamente l’equilibrio grazie alla saggezza di Odhinn e alla scaltrezza di Loki (sempre lui a sanare ciò che per primo ha guastato), e al malinconico matrimonio riparatore tra la regina dei ghiacci, Skadhi e il dio marino Njordr, gli Asi si trovano ad affrontare l’evento più tragico e triste della loro storia. Cioè la morte del figlio amatissimo di Odhinn e Frigg, Baldr, il dio giovane, puro e innocente, che sembrava a tutti invulnerabile e che invece soccombe all’ennesimo tranello di Loki. Forse gli Asi col loro pianto possono ancora salvare il figlio di Frigg e riportarlo in vita, ma ancora sarà Loki con i suoi trucchi ad impedirlo.
Ormai odiato da tutti e bandito da Asgard, Loki torna inaspettato a provocare l’ira degli Asi, coprendoli di insulti e infamie, poi fugge tra le montagne, dove malgrado le sue metamorfosi incessanti, verrà infine catturato e imprigionato.
A questo punto il viandante è pronto ad assistere all’ultimo capitolo della storia, il crepuscolo degli dei: il giorno che Loki incatenato si libererà, alleandosi col Lupo, il Serpente e le altre creature mostruose, gli Asi dovranno combattere la loro ultima battaglia e perire insieme ai loro implacabili nemici. Il cielo le stelle e la terra crolleranno, come nelle antiche profezie, e lo stesso palazzo degli Asi davanti agli occhi del viandante svanirà, come fosse stato fin dall’inizio un’illusione.

Intervista a Giorgio Barberio Corsetti - english version
a cura di Gigi Cristoforetti

Epoca di lupi...

epoca di asce, epoca di spade
gli scudi crepati
epoca di venti, epoca di lupi
prima che il mondo cada a pezzi


il lupo si nutre della vita
insanguina la casa degli dei
s’estingue la luce del sole
la natura è tutta nemica…


E voi, ascoltate, o cosa?

Uno chapiteau bianco nel giardino di una villa settecentesca, ai margini di un viale che esibisce ancora le macerie di una recente trasformazione. All’interno, nella sala prove, mucchi di oggetti comuni e capi di vestiario sparsi lungo pareti che gocciolano la condensa di una temperatura assai rigida. La sala principale, enorme eppure consolante e accogliente, come solo uno chapiteau può riuscire ad essere. I camerini, bungalow da cantiere ogni giorno meno impersonali, si riempiono dell’energia di venti ragazzi, le cui origini e lingue si perdono in storie molto diverse tra loro. Insomma, un teatro, abbastanza particolare, ma un vero teatro.


Avanza il fuoco con crepitio di rami
splende sulle spade degli dei in battaglia
precipitano i monti,
battono gli uomini il cammino della morte
il cielo cade…


C’è una storia raccontata in questo chapiteau, ed è quella de Il Colore bianco, un testo che Edoardo Albinati ha tratto da antichi miti nordici, arcaici e così lontani da noi…
Ma, secondo Giorgio Barberio Corsetti, non è così difficile avvicinarli.

G.B.C. <<I miti di per sé sono un racconto. Storie a volte elementari, che nascono perché raccontano qualcos’altro, che viaggia all’interno del racconto. Ed è la materia di cui è costituito il nostro modo di decifrare il mondo, sia quello esterno, sia quello interiore.
Gli dei e le dee hanno veramente a che fare con noi stessi, con la nascita della nostra cultura e del nostro linguaggio. A questo mondo simbolico dobbiamo avvicinarci in maniera molto semplice, come se appartenessero alla nostra vita quotidiana.
Simbolico non significa che nascondono un significato indecifrabile. Piuttosto, esprime la possibilità di unire un mondo nascosto dentro di noi a un mondo altro, fantastico. Queste storie sono porte aperte sull’inconscio, sul sacro, sul non conosciuto. Sono miti che hanno un carattere nello stesso tempo scuro e pieno di vita, gioioso, perfino comico, e anche violento, molto violento. Il tema ha a che fare con smisuratezze, con un equilibrio turbato, storie e personaggi fuori norma. Non c’è una misura, non c’è quel rapporto equilibrato con la natura, tipico del mondo greco. Qui l’equilibrio è precario e richiede continui sforzi e imprese. Mantenere l’armonia è una lotta, e alla fine le forze del disordine e del caos vinceranno e gli dei saranno sconfitti>>.


E’ impossibile non chiedere in quale misura questo spettacolo, con la “smisuratezza” dei temi, con i suoi nani e dei, giganti ed eroi, sappia anche rapportarsi con un momento drammatico come quello attraversato dalla nostra società. Il teatro non sfugge a questa situazione, e vive un ruolo attivo cercando di metter a fuoco scenari continuamente ridefiniti sul piano sociale ed economico, ma anche artistico.
Il dato più importante è semplice: ha sempre meno senso parlare di teatro, danza o performance come linguaggi puri o legati ad un carattere nazionale. Non interessa al pubblico, non esprime i veri confini culturali. E non ha senso immaginare lo spettacolo come nicchia autonoma, quando un bisogno prepotente è quello di far emergere spazi “altri” di pensiero sociale, di libertà, di confronto, fuori da logiche che hanno vinto, ma non convinto. Il colore bianco compie il percorso triennale di Torinodanza in stili e linguaggi diversi, e lo fa mettendo insieme una compagnia di sei danzatori, cinque attori, otto acrobati e due musicisti, che hanno le proprie origini in continenti e paesi diversi. Per dirigerli sono a Torino un regista italiano e una coreografa belga, di origine anche africana.

G.B.C. <<Per quanto mi riguarda il teatro non ha la funzione di affermare ciò che è giusto o sbagliato. O perlomeno, non è quello che so fare io. Io lavoro all’interno di una società, un po’ come un pittore del rinascimento in una corte. Il mio lavoro è quello di essere un filtro, una spugna. Mi faccio riempire da una serie di racconti, di storie, di immagini, di quello che sento, delle persone con cui lavoro. E restituisco un materiale distillato. In questi materiali cerco di scoprire quali sono i sogni, chiamiamoli così, che sono in opposizione rispetto ad un mondo che tende al sonno. Cerco un risveglio, cerco uno spazio per le componenti nascoste, che sono magari addormentate in noi. Nelle Argonautiche, il mio precedente spettacolo, c’era un’immagine ben precisa, quel bagliore dorato che era la pelle del montone sacrificato, una specie di piccola luce che sta nel fondo oscuro della terra, o di se stessi. E poi c’era il ritorno in una terra esausta, come la nostra Europa di oggi, nella quale il senso di quel sacrificio si perde. E’ come se l’unica risposta, come dice Giasone a Orfeo, possa essere il canto del poeta. In un certo senso è anche vero: non il canto in se stesso, ma il tempo di quel canto, il tempo liberato da altre dimensioni delle quali siamo prigionieri. Anche il tempo di uno spettacolo, quindi, che è una porta aperta su un altro mondo che ci appartiene. >>.

si è sciolto dai suoi lacci il lupo
e galoppa per il mondo!

E voi, ancora mi ascoltate?

Fatou Traoré: << Con questo spettacolo ci troviamo proiettati in una specie di microsocietà, con genti differenti, stili diversi e individualità molto forti che si incontrano. Qualcosa che è molto attuale, una specie di rappresentazione della società che abbiamo intorno. Al tempo stesso abbiamo bisogno di identificarci con qualcosa di preciso. Un attore è un attore, e lo stesso vale per un danzatore o un circense, ma deve esserci una capacità di aprirsi per formare un mondo preciso, non un miscuglio confuso.
L’incontro è anche terribile, il metissage può portare alla perdita del senso. Io credo nella forza di ogni cultura, di ogni arte ed espressione, e non è soltanto perché ci si ritrova insieme che bisogna livellarsi. Il tema è particolarmente importante, perché siamo al culmine di una tendenza all’incontro forzato, alla quale non possiamo sfuggire. Tuttavia bisogna continuare a chiedersi cosa ci faccia incontrare, cosa ci porti e cosa ci tolga. In questo senso il nostro lavoro è una metafora perfetta di una problematica sociale>>.

E allora, qual è la proiezione a livello artistico di questa metafora sociale?

F.T. <<Non bisogna avere paura uno dell’altro. All’inizio anche un interprete come Filippo Timi era terrorizzato dalla dimensione della danza, e si sentiva frustrato dalla sensazione di non possedere quel linguaggio espressivo. Eccoci davanti ai nostri limiti. Mi interessa che ciascuno tenga la propria forza e la propria tecnica, ma sappia rapportarsi agli altri: una modalità di incontro che arricchisce, e vale sul piano sociale come su quello artistico o personale. Non mi interessa un mimetismo, in base al quale tutti danzano, ma la capacità di intonarsi e lavorare insieme su direzioni di volta in volta diverse.
Ed è un incontro altrettanto forte quello con Giorgio, e richiede la capacità di mescolare due livelli di espressione, uno estremamente concreto come il suo, con il mio, che è più impressionista>>.

Abbiamo accennato alla capacità di raccontare, che è peculiare del teatro. Ora parliamo anche di danza, in quel senso aperto, “impuro”, che ritroveremo in questo spettacolo.

G.B.C.:<< Devo ragionare io stesso, come anche gli interpreti, con al fondo un pensiero coreografico. In certi momenti, senza perdere la ricchezza di senso del racconto, tutto deve partire verso un mondo fatto di movimento e organizzato secondo tempi musicali e non psicologici. Lo spazio deve essere pensato per i corpi e per il movimento.
Ciò che però sappiamo importante è che non deve esserci “il” momento coreografico, o quello circense, ma un’integrazione che regali all’insieme del racconto la specificità della danza o della acrobazia>>.

F.T.: <<Non mi interessa, in questo caso, esprimere la cifra stilistica di Fatou Traoré e livellare gli interpreti alla ricerca di un segno preciso, come in una tradizionale coreografia. Piuttosto, si tratta di organizzare le possibilità espressive di ciascuno, nell’ambito delle tre dimensioni: quella degli attori, dei danzatori e dei circensi. Se avessi dovuto fare una coreografia, allora avrei scelto un corpo di ballo. Il nostro obiettivo era diverso, e ora non posso fare a meno di ascoltare la specificità di questi interpreti. Prendiamo Kiluangi Runge, e vediamo la sua storia. Proviene dalla Germania dell’Est, che non esiste più, e non conosce né il padre né la madre, anche se, chiaramente, è per metà europeo e per metà africano. E’ come se emergesse dal nulla, e per di più si è avvicinato all’arte a vent’anni. Benaji Mohamed è marocchino, e viene dall’hip-hop “puro e duro”, Claire Laureau è francese, con una grande cultura alle spalle, mentre Peter Jasko e Andrej Petrovic sono slovacchi, con studi di danze tradizionali, di classico e di contemporaneo. Mi da un senso di vertigine lavorare sulla diversità, sulla possibilità che ciascuno trovi il proprio spazio espressivo, sulla necessità che ciascuno presti il proprio corpo e la propria storia a personaggi così enormi e a vicende così particolari come sono quelle de Il colore bianco>>.

tu sai come incidere?
tu sai come interpretare?
tu sai come ritrarre?
tu sai come provare?
tu sai come pregare?

Al fondo di questi discorsi, possiamo senza fatica trovare il baricentro artistico di questa operazione così insolita e radicale, condotta con un vero bisogno di affrontare temi forti della modernità, ma anche di ragionare sul senso che ha oggi l’incontro di stili e linguaggi differenti.
Ed è il corpo, quello carico di una storia personale e collettiva, capace di raccontare dimensioni smisurate con il virtuosismo iperrealistico del circo, o con l’astratta immediatezza della danza. Un corpo non standardizzato e non necessariamente bello, ma carico di un’emozione e di una personalità che deve travalicare i limiti dei linguaggi corretti per avere la verità. Una verità, una delle tante.

G.B.C.: <<Ognuno porta con se un modo di intendere il corpo. Per un verso, sappiamo che c’è una cultura del movimento abbastanza generalizzata, nella quale si mischiano tanti codici differenti, dalla danza di strada a quella classica. Esistono però anche elementi che invece sono specifici. Dipendono da come uno ha respirato e ha vissuto, da quello che porta negli occhi, dal modo di muoversi delle persone che lo hanno circondato, da tutto quello che ha appreso, se ha vissuto in campagna, o in montagna, o in città. E poi se faceva freddo o caldo… C’è una memoria del corpo che è estremamente ricca, una immaginazione del corpo, e anche del movimento. A questi elementi, che sono in parte culturali e in parte genetici, si unisce qualcosa di più specifico, il particolare timbro del movimento di ciascuno, che è inimitabile, come il colore degli occhi o il tono della voce. Tutto questo è una ricchezza: la gamma dei colori e dei timbri presenti in un gruppo di interpreti arricchisce in maniera incredibile lo spettacolo. Il nostro compito, di Fatou e mio, è anche quello di capire la specificità di ciascuno e di comporre partendo da questo.>>

Il cielo sarà bruciato
E così la terra e tutto il mondo
E tutti gli dei saranno morti
Soltanto allora una nuova terra
Emergerà dal mare…

Le cinque citazioni in corsivo sono tratte dal copione di lavoro, alla data del 6 gennaio 2006, de Il colore bianco, curato da Edoardo Albinati.




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