DOLORE E BELLEZZA

di Gigi Cristoforetti
Direttore Artistico di Torinodanza Festival

In che modo l’arte interpreta il proprio ruolo creativo? È sempre importante interrogarsi intorno alla questione. Oggi sembra che il punto di partenza di ogni riflessione non possa essere la valenza estetica, ma la capacità di offrire una rappresentazione della nostra contemporaneità. Senza tante proiezioni sul futuro. Di quale mondo, ad esempio, ci voglia parlare un coreografo importante come Alain Platel, è chiaro: dilaniato da guerra e dolore (vsprs, Torinodanza 2006 e pitié!, Torinodanza 2008). Il coreografo fiammingo celebra con i suoi spettacoli un rito liberatorio, quasi primitivo. I suoi personaggi ne escono riscattati, l’interprete attraversa una parabola di solitudine e follia per ritrovarsi, infine, con i suoi compagni di strada. Forse non gioioso, ma non più solo. Emio Greco ci interessa perché mantiene lo sguardo fisso sull’inferno (Hell, Torinodanza 2008) ma ne organizza una visione articolata, colma di bellezza e di una forza struggente. Pur denudando - letteralmente - l’interprete, ne sottolinea la sacerdotale e strepitosa visionarietà. Abbiamo visto anche [purgatorio] POPOPERA (Torinodanza 2008), e aspettiamo Para|Diso (una coproduzione Torinodanza 2010) per scoprire come continua il viaggio. Esistono anche elaborazioni più intellettuali di questo lutto esistenziale diffuso, ed è facile riscontrare la paralisi di ogni vitalismo, fino alla sospensione del movimento - che è il codice specifico della danza -. La rinuncia all’organizzazione armoniosa del gesto appare come doverosa, in questa logica di denuncia “pura e dura” dell’apocalisse politica, sociale, economica. Come sa chi segue Torinodanza, al centro della programmazione dell’anno passato c’erano Platel e la danza fiamminga per un verso, Emio Greco per un altro. Dal 2008 al 2009 sembra però sia passato un secolo, si sono capovolte le prospettive, dolore e paura sulla scena assumono un significato diverso. L’arte e la danza di oggi non ci devono ricordare che da qualche parte c’è un mondo meno favoloso di quello dove vive il pubblico della platea. Ora bisogna lavorare sulla ricomposizione di una società ormai lacerata fin dentro i suoi baricentri politici e sociali, fin dentro quella platea. Qualcuno dovrà pur cominciare a farlo, e forse qualche nuovo mito ci sta già provando: oggi vediamo un presidente americano che non gira il mondo per gridare una sua ragione, ma per ricucire con maggior modestia una tela più condivisa. L’arte è in ritardo? No, oggi possiamo probabilmente vedere solo ciò che è stato immaginato negli anni scorsi. Agli artisti - e a chi li diffonde e sostiene - compete però immaginare i prossimi anni, scegliere una strada. E servono scelte motivate, per svariate ragioni. La prima è economica, e non lascia spazio a narcisismi, obbligando tutti a cercare di valorizzare le risorse disponibili. La seconda motivazione è ancora più profonda. Non sopravvivranno (non devono sopravvivere) tutti i modelli organizzativi, e neppure ci sarà spazio per tutti gli artisti o per ogni possibile fonte d’ispirazione e di creazione. Dunque, ogni scelta è un’indicazione, ogni invito ad un artista è un contributo alla sua affermazione, e forse una trincea per proteggerlo. A scapito di altri, naturalmente. Ecco perché (pur non avendo mai sentito il bisogno di giustificare una programmazione, prima di quest’anno) in questi mesi ho voluto cercare ragioni interne, profonde, per ogni decisione. Opinabili e personali, naturalmente. Fragili ed effimere ma utili come può esserlo, oggi, una bussola. Eccole.Forsythe torna con uno dei suoi capolavori (dopo Impressing the Czar, Torinodanza 2007) perché ha una struttura forte, il coraggio della composizione coreografica complessa, la speranza in una bellezza nuova. Artifact è del 1984, ma ne abbiamo forse più bisogno oggi di allora. Assistervi significa partecipare a una celebrazione della fiducia nella creazione. Tornano anche les ballets C de la B, con uno spettacolo che testimonia perfettamente quel “cambio di secolo” che è avvenuto quest’anno: Ashes è ancora prevalentemente concentrato sull’amplificazione delle distonie del mondo contemporaneo. Ma il cammino di questa compagnia è per sua natura radicale, e aspettiamo con interesse i lavori che debutteranno a Torino nei prossimi anni, dopo la riconferma della collaborazione con Torinodanza. Platel resterà un compagno di strada importante, perché il suo dolore umano e sociale diviene compianto, solidarietà e genera un riscatto simbolico che sembra una versione laica del sogno cristiano di salvezza. La danza italiana produce opere eccellenti e sentiamo, proprio quest’anno, un bisogno particolare di difenderla. Cerchiamo di farlo presentando, uno accanto all’altro, maestri riconosciuti e qualche artista che prova ora a giocare le proprie carte. Abbiamo scelto Virgilio Sieni e Caterina Sagna con due lavori ciascuno, che concorrono a definire piccoli ritratti d’artista. Torna Emio Greco, Carlotta Sagna propone un suo piccolo capolavoro, mostrano il proprio lavoro Valeria Apicella e Ambra Senatore. Nulla di esaustivo, molto di esemplare, grazie anche a tre coproduzioni di Torinodanza. Le scene atipiche sono poco visibili sui palcoscenici italiani, e sono fatte di spettacoli inclassificabili, artisti mal conosciuti e creazioni dalla durata disomogenea, spesso troppo breve per una serata. A quest’ambito siamo affezionati, e riportiamo Mathurin Bolze (dopo Fenêtres, Torinodanza 2008) stavolta abbinato a Cridacompany. La scoperta che raccomandiamo nel 2009 al pubblico si chiama Pierre Rigal, che ripropone Érection (Torinodanza 2005) e mostra in prima nazionale Press. Ecco i semplici fils rouges di quest’anno, ai quali si aggiunge una riflessione sull’opportunità che i festival si aprano al repertorio e ad uno sguardo retrospettivo, abbandonando la corsa alla novità come unico criterio di merito. Ricomporre uno sguardo più ricco sulla danza significa anche estenderlo verso il tempo passato, ed è ciò che da quest’anno cercheremo sistematicamente di fare. Tutto qui? No, c’è qualcosa d’altro che provo a suggerire. Da un po’ di tempo vorrei parlare della bellezza. Con gli amici francesi ci si riesce: la definiscono ringard, ma perlomeno il termine beauté ha un senso e un suono compiuto. In Italia gli sguardi sono più interrogativi, l’aggettivo “passatista” funziona male, e perfino la parola bellezza inclina verso usi ironici. Eppure... mi piace l’idea di cominciare il Festival con Artifact e portarlo a compimento con Extra Dry - Fra Cervello e Movimento, sono felice di proporre La natura delle cose, ho voglia di una follia che non è svago intellettuale, come in AD VITAM, e di un dolore che sa diventare gioco e scommessa di umanità, come in Ali. Sono solo tracce dentro un programma, naturalmente, non un manifesto, perché non sono tempi per qualcosa di diverso. Eccoci, però, ad un interrogativo che costituisce un curioso punto d’arrivo: quando la bellezza riprenderà ad offrire una sua rappresentazione del mondo, meno silente e più capace di mettersi di fronte al frastuono delle violenze, sull’altra sponda del fiume impetuoso del nostro tempo presente?


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